di Francesco Bellucci
Il soggetto è un punto, una posizione: ampiezza dell’angolazione o potenza dell’immaginazione, il soggetto è proprio dove avevamo smesso di cercarlo, cioè nella struttura di rapporti differenziali che non lo presuppone, e che invece lo produce.
Si ha struttura solo di ciò che è linguaggio, questo lo sappiamo. Ora, il soggetto sembrava essere a monte del linguaggio: il soggetto crea il linguaggio ad immagine e somiglianza di sé e del mondo, è contemporaneamente causa motrice e inventore straordinario della parola e del gesto, del pensiero e della tecnica. Insomma, il soggetto sarebbe condizione di esistenza del linguaggio, della struttura e, fatto 2 più 2, del mondo stesso.
Ma scambieremmo i termini del rapporto. Senza esserne il presupposto, il soggetto si insinua ed emerge dal linguaggio come il sintomo si insinua ed emerge dalla malattia, senza confondersi con quella e tuttavia portandola alla luce. Il linguaggio e il soggetto stanno tra di loro come la malattia e il sintomo.
In altre parole, il fatto che il linguaggio abbia una direzione privilegiata che noi chiamiamo soggettività non è che un effetto: nel linguaggio noi non riconosciamo che delle posizioni, intercambiabili, sovrapponibili, narcotizzabili o magnificabili, ma pur sempre posizioni. Questo effetto, perché di un effetto si tratta, non ha niente a che vedere con la fondazione: noi riconosciamo dei soggetti e delle direzioni in quanto posizioni che si alternano o che si scontrano, ma non sappiamo niente circa le condizioni della loro esistenza o gli eventi che li hanno prodotti.
Non è il soggetto che mette in moto il linguaggio, ma il contrario: è il linguaggio che mette in moto il soggetto, facendolo esistere come pura posizione accanto alle altre. Il soggetto della prospettiva non è che questo stesso soggetto: immobilizzato e implicato nella visione, è ridotto a punto geometrico di osservazione.
Questa frantumazione della soggettività, e questa sua infinitesimale dispersione, sono il cuore dello strutturalismo. Il vero soggetto è la struttura, appunto, poiché in essa il soggetto è ridotto a casella vuota, da riempire con quello che vogliamo, d’accordo, ma che esiste e ha senso (cioè valore) prima che venga riempita.
E quando siamo noi ad occupare questa posizione, lo facciamo in una specie di eterno ritorno linguistico, in cui diciamo “io” solo perché il linguaggio ci ha preparato la stanza e messo il copione sul comodino. Speriamo che almeno abbia cambiato le lenzuola.
La semiotica è vasta, impossibile coprirla tutta. Forum di attualità, cultura e innovazione degli studenti di Discipline Semiotiche, Bologna. IL PE_RIZOMA è UNA RIVISTA GRATUITA! MAIL: pe_rizoma@yahoo.it
29 settembre, 2006
La Posizione del Soggetto
Postato da pe_rizoma alle 17:37 0 interpretante/i
Nomotetizzazioni >> semiotica
Il Caimano
di Giuseppe Marino
Cominciamo col dire quel che il film di Moretti non è: non è un documentario á la Moore, non è un film su Silvio Berlusconi; è, comunque, un film fortemente politico. L’opera è strutturata su molteplici livelli, ciascuno dotato di un proprio linguaggio e portatore di una specifica storia, tutti vanno ad interagire per creare un messaggio primario ed unitario. Attorno alla vicenda personale e familiare di Silvio Orlando, vengono mostrati stralci di film, alcuni realizzati, altri ipotetici, all’interno della realtà de “Il Caimano”. Orlando è stato un produttore di b-movie negli anni ’70 - ’80, produttore di quelle opere ora rivalutate, sottoposte ad un giudizio più sociologico che di critica cinematografica, indicate nell’opera di Moretti come “anticorpi” provvidenziali nell’essere alternativa alla fruizione elitaria del cinema d’autore. Un sistema di difesa che sarebbe oggi impensabile in questi termini, avendo perso quel dato linguaggio e quei soggetti le caratteristiche d’eccezionalità, per diventare la regola. Si vedono stralci di questi film dai titoli fantasiosi (Maciste contro Freud, Mocassini assassini, Cataratte…), le scene soltanto immaginate di un film su Berlusconi su sceneggiatura di Jasmine Trinca, la preparazione di scene dallo stesso copione con un Berlusconi interpretato da Michele Placido, immagini di repertorio con vere performance del Caimano, ed infine le uniche riprese realizzate, finanziate da Orlando.
Pure non mancano, disseminati nel film, momenti di ironia morettina. Come non manca una critica alla falsa satira (spesso sedicente) di sinistra, che altro non fa che rendere il padrone di Mediaset una macchietta più facilmente digeribile, oltre a permettergli di autoproclamarsi “editore liberale”.
Il film non è su Berlusconi, ma è, nel complesso, un film sul berlusconismo. Tutti i personaggi sono il prodotto di un’Italia che si è sviluppata sotto una trentennale dittatura televisiva, e ciascuno non può non confrontarsi, per analogia o contrapposizione, con questa realtà mediatica e sociale, diventata da 12 anni esplicitamente politica. Si mostrano il giovanile arricchimento del futuro leader di Forza Italia, i cambiamenti dei costumi e la manipolazione delle coscienze imposti da decenni di televisione commerciale, quindi l’entrata in politica. Si mettono in scena le sue varie facce, ciascuna espressa da un diverso attore: il Berlusconi rampante con Elio De Capitani, quello bonario e populista, ad opera di Placido, quello distruttivo che ha diviso l’Italia, ponendosi con la forza al di sopra dello Stato e dei poteri istituzionali, incarnato nell’efficace finale dallo stesso Moretti.
Postato da pe_rizoma alle 17:36 0 interpretante/i
Nomotetizzazioni >> cinema
L'mp3, uno stile di consumo musicale
di Simone Arminio
Viviamo un’epoca sempre più affollata di stimoli, di proposte culturali sensazionali di fiamma intensa e vita breve. Un mondo in cui la democratica concorrenza fra le proposte sul mercato non permette di appassionarsi ad un film o una canzone per più di mezz’ora; le emozioni, anche quelle, sono diventate a tempo determinato, e dopo un godimento subitaneo, intenso e travolgente, si è già subito annoiati e pronti al nuovo.
Una volta, neanche troppi anni fa, c’erano gli album in uscita, e le radio che passavano il singolo per un periodo di tempo utile ad incuriosirti, prima di diffonderlo.
Compravamo i nostri cd, schifosamente costosi, e la conoscenza musicale era perciò una cosa tristemente elitaria, proporzionata alle capacità d’acquisto. Oppure, ci facevamo la cassettina, coi titoli scritti a penna, e la dedica nel lato interno della custodia di chi ce l’aveva registrata; ascoltavamo, ascoltavamo, ascoltavamo, fino a conoscere un album alla perfezione, incamerare ogni suono, personalizzare ogni sua suggestione.
Negli anni novanta è arrivato internet, con la tecnologia mp3 ed il nuovo ’68: una rivoluzione culturale basata sulla condivisione senza limiti, in barba al copyright ma anche all’imperio economico delle case discografiche.
La gente, in massa ha preso a convertire, scaricare, condividere, ma soprattutto a conoscere, ampliando i propri orizzonti musicali come mai avrebbe potuto.
Perno di tutto, un nuovo formato musicale, dalla qualità più scadente ma di grande versatilità, che gli permetteva di circolare velocemente in una rete che andava ancora a modem analogici. L’Mp3, però, a quei tempi era ancora solo un mezzo: veniva scaricato e subito convertito in formato audio, andando ad arricchire compilation così eccentriche e variopinte che nessuna major musicale si sarebbe mai sognata di produrle.
L’industria tecnologia però aveva fiutato l’affare. Quando sono arrivati i primi lettori di mp3, erano davvero sciccherie da orecchie mercificate: chi avrebbe mai sostituito la gioia dell’album, coeso e compiuto, con titoli e copertina, ad un calderone di brani posizionati alla rinfusa in un supporto dalla durata potenzialmente infinita?
Sono arrivati comunque i primi problemi. Scaricare è un reato. Il commercio però è l’anima del mondo, non può essere contrastato: le ditte di produzione di software e hardware, quelle di hi-fi, hanno cavalcato l’onda del suo successo e cominciato a ragionare solo in termini di mp3, e i servizi di internet sono stati potenziati in funzione di download sempre più corposi.
L’mp3, che alla sua nascita era tutto sommato una cosiddetta pezza a colori, uno stratagemma, arrangiato solo per risparmiare spazio, oggi rischia di diventare lo standard di formato musicale. Con le sue pratiche di ascolto annesse e connesse.
La cura del proprio orecchio infatti, e della propria educazione musicale, si è presto trasformata in una pratica dell’accumulo quantitativo e qualunquista.
Una volta, neanche troppo tempo fa, c’era il culto della canzone, sentita di striscio a casa di un amico, sentita dire, e poi ricercata con tutti i mezzi per mesi, quindi inserita come una perla nella propria compilation.
E le compilation personali erano una sorta di opera d’arte: un impresa di limatura, filtro e selezione, per creare un prodotto finito in cui 16-18 brani si susseguivano secondo il proprio personale criterio estetico ed il personale godimento.
C’erano 70 minuti – e non uno in più - da riempire. E si poteva lasciare dello spazio libero anche solo per il fatto che i titoli poi non entrassero tutti nel foglietto. Io, infatti, odiavo quelli che dicevano convinti: “hai sentito la numero otto, quant’è bella?” Pensavo che se un prodotto culturale ha un titolo, significherà qualcosa. Ora, quando giri in macchina, stereo e cd di mp3 ormai d’ordinanza, ti senti dire: “metti su la 97, per favore…” Titoli ed autori, identità e contesto, colpa della mancanza di confini, sembrano del tutto spariti.
Cos’è successo? La splendida opportunità di conoscenza fornita dalla condivisione, si è trasformata – questa è la perversione - in un’ansia dell’accumulo incondizionato. Ciò perché si è spostato eccessivamente il punto di riferimento, lo standard quantitativo del formato: dal 45 giri (singolo più b-side), all’album, si è arrivati al culto della discografia, capite bene: l’opera omnia in costante costruzione di un artista. Roba che una volta si faceva, e solo se ne valeva la pena, post mortem autoris. Siamo, in pratica, diventati schiavi delle magnifiche sorti e progressive del medium e del supporto, che più largo è, più ci induce ad ammassare, riducendo al minimo i tempi di ascolto, di consumo, ed il concetto stesso di godimento di un’opera d’arte.
Neanche troppi mesi fa, uscivo di casa con il walk-man o il lettore cd, e ciò significava dover fare una scelta, a seconda dell’umore della giornata. Oggi, tutto il tempo utile all’ascolto lo perdiamo nella scelta dei brani da selezionare in una library che, nel peggiore dei casi, ha un’autonomia di un centinaio di ore.
Ma poi, sapreste ancora canticchiarmi cosa avete ascoltato ieri?
Postato da pe_rizoma alle 17:35 0 interpretante/i
Nomotetizzazioni >> comunicazione
La vera origine del Debrayage
di Damiano Arena
Da Ottobre a oggi ho sentito tante volte la parola débrayage con annessa definizione. Tutte le volte la risposta del docente di turno era: un non qui, un non io e un non ora. Praticamente una sorta di presa di distanza da qualcuno, ma soprattutto da qualcosa.
Sin dalla prima volta, che si è parlato del debraiaggio in questi termini, ho avuto l’impressione che si trattasse di una situazione di cui ero già a conoscenza. Più ci pensavo e più mi chiedevo dove avessi sentito quelle stesse parole, quello stesso atteggiamento di distacco. Ero talmente convinto di saperne qualcosa, pur non avendo mai studiato semiotica generativa, che mi sono trovato più volte assorto a cercare di capire il perché della mia convinzione.
Un giorno, però, durante una lezione di Paolucci il mio dubbio ha trovato la risposta che da tempo cercavo. Il non qui, il non io, il non ora non è altro che la traduzione letterale del classico detto, che tanto detto non è, “nenti vitti, nenti sacciu e si c’era durmeva!”.
Un classico momento di concitazione delle sviolinate paolucciane mi ha fatto tornare in mente che da ben ventitre anni debrayo e vivo in mezzo al débrayage. Sono nato nelle patria del débrayaggio e non me né ero mai reso conto.
Chissà chi ha esportato in Sicilia questa teoria, che Greimas è convinto di avere inventato. Con tutte le dominazioni che abbiamo subito potrebbe essere stato chiunque: gli Arabi, i Normanni, i Borboni o perché no gli Angioini; magari tra questi ultimi chi può sapere che non ci fosse un vecchio antenato di Greimas, in fondo anche loro erano francesi.
Dall’oltralpe fino alla terra dei vespri e degli aranci la strada è tanta e il passaggio non è poi così scontato, un obiettivo è certo però, bisognerà capire se i primi a debrayare sono stati gli antenati di Greimas o gli avi di Provenzano.
Facendo ricorso alle mie esperienze personali e alla mia sicilianetà, sono pronto a giurare che tutto ciò che abbia a che fare con qualcosa di disonesto sia nato da noi. In fondo sia la DC, con Don Luigi Sturzo, che Forza Italia con Marcello Dell’Utri sono nati tra le pendici dell’Etna e l’hinterland palermitano. Allora la risposta è semplice: Greimas prima di teorizzare il suo debrayage è sceso giù in Sicilia, ha ricevuto qualche lezione di omertà e poi ha fatto il fenomeno scrivendo due libri.
A questo punto mi sento di affermare tranquillamente, che una parte fondamentale della semiotica generativa sia nata nell’antica Sicania.
Come al solito: prima ci criticano e poi ci copiano!
Postato da pe_rizoma alle 17:34 1 interpretante/i
Nomotetizzazioni >> semiotica
E' il controllo della pubblicità il vero problema della tv
di Simone Arminio
La prima dichiarazione del neo-ministro delle telecomunicazioni, Paolo Gentiloni, sulla necessità di abrogare la legge Gasparri e riformare di sana pianta il mondo delle comunicazioni in Italia, riporta per l’ennesima volta la pubblica attenzione sull’anomalia delle nostre televisioni.
Che il sistema televisivo italiano sia un sistema drogato, un mercato sbilenco, immobile, dominato da pochi poteri forti, ciò è davvero risaputo, fino alla noia. Una certezza, che ormai pervade l’intera Penisola e tutti i suoi abitanti, dal più celebre massmediologo fino all’arcinota (ed forse arcistufa) casalinga di Voghera, che di televisione - si sa – ne capisce più di Mike Bongiorno ed Aldo Grasso messi insieme.
C’è bisogno di ribadirlo? Il duopolio Rai-Mediaset controlla sei canali nazionali su un totale di otto effettivi. Il resto, è presto detto: La7 con il suo 2-3% di share praticamente non fa testo, Mtv è un canale tematico, perciò dotato di uno statuto a parte. Un’altra concessione – Europa 7 – rimane tuttora inutilizzata.
In queste condizioni il mercato televisivo, stretto fra la gestione impura del servizio pubblico, vittima perenne delle logiche parlamentari, e l’aggressività del sistema privato (leggi come sostantivo singolare maschile: un solo privato), appare governato da due dominanti: la politica, mutevole ed egoista per antonomasia, e lo spirito commerciale che pervade in egual modo il pubblico ed il privato.
Identificati a dovere i mali che affliggono la tv, anche le cure auspicate sono state quindi declamate a lungo in questi anni, facendo morire di noia tanto Aldo Grasso quanto la povera casalinga lombarda.
C’è estremo bisogno, praticamente urge - lo ha ripetuto per ultimo qualche giorno fa in un’intervista a Repubblica il ministro Gentiloni - una riforma che contrasti gli accentramenti di potere e snellisca le percentuali della torta televisiva, da sempre in mano a due soli attori. Solo così si potrebbe incentivare l’ingresso nel mondo televisivo di nuove figure imprenditoriali.
Il mercato della televisione però, molto prima che dalle leggi, è sorretto e regolato dalla pubblicità, indispensabile linfa vitale per qualsiasi impresa mediatica.
È la pubblicità a pagare, ma pure in questo importantissimo settore il duopolio Rai-Mediaset domina, attirando a sé la quasi totalità delle risorse disponibili sul mercato. Solo rompendo il predominio dello spot si creerebbero allora le condizioni per una effettiva e reale liberalizzazione del mercato.
Il vero duopolio televisivo, questo è il punto, è quello pubblicitario. Ed è più forte e arroccato di quanto non sembri agli occhi degli stessi esperti (e delle casalinghe). Gli investitori sono sempre gli stessi: ditte che scelgono di destinare la maggior parte delle loro spese promozionali alla pubblicità in tv, ingolfando le trasmissioni di spot e creando nel mercato logiche centrifughe dalle quali è difficile sfuggire.
Perché a televisioni ed investitori pubblicitari, lo status quo attuale, a dire il vero, risulta essere la situazione migliore e più vantaggiosa possibile. Ciò fa ragionevolmente pensare che anche dopo una reale e fattiva riforma sarà difficile scardinarla.
Una consolidata e diffusa forma di co-programmazione (che, se fosse concordata e illegale, si chiamerebbe “cartello”), è dimostrata dall’esperienza quotidiana.
Nella fascia più importante e remunerativa di tutto il palinsesto, la prima serata, la finestra pubblicitaria delle 21:55 (per intenderci: quella che piomba addosso ai telespettatori sul più bello del film o del programma televisivo che stanno guardando) va in onda simultaneamente almeno in 5 canali su otto, per oltre l’80% dello share totale.
Alle 21:55 di domenica 14 maggio 2006, una serata qualunque, la pubblicità era presente contemporaneamente su Rai1, Rai3, Rete 4, Italia 1, Canale 5. In queste condizioni lo spettatore, benché armato di telecomando e pronto allo zapping difensivo, difficilmente può sfuggire. Sono i nostri cinque minuti di fuoco pubblicitario quotidiano e generalizzato ai quali è davvero impossibile sottrarsi.
Alle emittenti in fondo va bene: lo spettatore fa il suo giro, trova spot dappertutto, quindi, a parità di rompimento, torna sul canale che stava guardando. All’insieme degli investitori pubblicitari va anche meglio: sanno che quei cinque minuti, su qualunque dei sei canali essi investano, avranno un ottimo share assicurato, in ogni caso.
A queste condizioni, così vantaggiose per tutti, perché cambiare? La strategia è consolidata e remunerativa, e lo spettatore alla fine comprerà, certo che comprerà.
Ma se oltre a definire un tetto massimo di raccolta pubblicitaria per ogni rete, la nuova legge vietasse anche la simultaneità degli spot su tutte le reti nella stessa fascia oraria, allora lo share diventerebbe davvero più instabile, il pubblico avrebbe reali possibilità di cambiare canale, e le piccole reti potrebbero giocarsi sui contenuti la loro percentuale quotidiana di share.
Si aprirebbe per loro la possibilità di diventare più appetibili per gli investitori.
La televisione diventerebbe forse più plurale, si creerebbero nuove fette di mercato. In due parole, il duopolio comincerebbe realmente a vacillare. Fantascienza? Chi può dirlo. Ma di certo nessuno vorrebbe essere nei panni del ministro Gentiloni.
Postato da pe_rizoma alle 17:28 8 interpretante/i
Nomotetizzazioni >> comunicazione
Visioni dall'Estremo Oriente: una poetica dell'immagine
di Giuseppe Marino
Fino a pochi anni fa le possibilità di guardare opere provenienti da Cina, Taiwan, Giappone, Corea, erano limitate a pochi titoli, ed unico portatore di questa “cultura altra” era Enrico Ghezzi, dalla sua nicchia finesettimanale in orario per licantropi e vampiri. Oggi, per una parziale apertura del mercato, per l’attenzione di alcune cineteche, ma soprattutto per il solido aiuto delle nuove tecnologie solidali, il paniere dei titoli reperibili è molto cresciuto.
Il circuito principale ed ufficiale predilige il cinema di genere, specialmente horror, dove la produzione hollywoodiana ha trovato numerosi spunti per remake più o meno riusciti. Le opere importate presentano dei tratti comuni molto rigidi e ripetitivi, che una volta assimilati rendono il filone poco interessante. Mi riferisco ai vari Ringu, Ju-on, Dark water, The eye…
Concentrandosi, invece, sul cinema così detto d’autore, la critica che gli viene spesso mossa è di essere eccessivamente “lento”. Quello asiatico è un cinema che parla poco: è questo lo scarto principale rispetto alla produzione cinematografica che ha adottato e cui ci ha abituato l'occidente. Da qui discende una predilezione per l'immagine e la sua costruzione, la narrazione attraverso il mostrare, che richiede maggiore attenzione, partecipazione ed interpretazione da parte del destinatario.Un cinema fatto prevalentemente di immagini dà agli oggetti la stessa dignità degli attori, permette una frammentazione della storia in rapidi flashback, permette di specificare situazioni e stati d'animo attraverso la rilevanza del contesto, che si fa espressione delle soggettività del personaggio e del regista. Permette notevoli ellissi, essendo l'attenzione concentrata sull'immagine, che presentifica tutto quel che mostra, con vincoli minori di esaustività ed esplicitazione. Allo stesso tempo una narrazione di questo tipo dissemina di punti focali l'intera pellicola, diminuendo l'importanza della storia complessiva, dell'evoluzione del personaggio e di tutti quei passaggi chiave propri del nostro cinema.
È probabilmente questa predilezione per il visivo uno dei fattori che ha portato il Giappone ad essere uno dei primi Paesi in cui l'arte dell'animazione ha assunto dignità pari a quella del cinema "dal vero": l'armonia del visivo ricercata in tutte le pellicole trova naturale espressione anche in altre forme, che siano distaccate dai vincoli del reale e che possano esprimere compiutamente la poetica dell'autore. In questo campo i nomi di spicco sono quelli di Miyazaki (Principessa Mononoke, La città incantata, Il castello errante di Howl), Otomo (Akira, Steamboy) e Oshii (Ghost in the shell, Innocence).
Chiusa la parentesi sull’animazione, un vero e proprio “maestro del muto” è il taiwanese Tsai Ming-liang. Opere come Vive l’amour, Che ora è laggiù, e l’ultimo Il gusto dell’anguria, creano una cifra stilistica, di chiara derivazione teatrale, dove il modo di mostrare le cose prevale su quel che viene mostrato e sull’intreccio. Lunghi pianosequenza a camera fissa, assenza di colonna sonora extradiegetica, rarissimi dialoghi, la ricerca di simmetrie fotografiche all’interno di soliti paesaggi urbani, sono gli ingredienti che rendono il suo cinema una testimonianza memoriale, uno sguardo personale sull’individuo, colto nella sua normalità e quindi universalità.
Più noti al grande pubblico Takeshi Kitano, che riesce a creare splendidi, vanitosi (anti)eroi (Hana bi, Sonatine…), oppure con Dolls affoga delle leggende metropolitane nell’estetismo più puro, rendendole struggenti; e Wong Kar-wai, autore di quell’In the mood for love diventato il simbolo del melodramma made in Hong Kong, formalmente e sentimentalmente perfetto.
Qualche parola vorrei spenderla per due autori giapponesi che non hanno ancora trovato posto nel mercato italiano, ma che sono fra i registi più significativi presenti sulla piazza. Il primo è Shunji Iwai, le sue opere migliori un mediometraggio di poco più di un’ora, Pic-nic, delicato equilibrismo fra nostalgia, ricerca visiva, poesia, follia. Altro è All about Lily Chou Chou, dove in più di tre ore si segue la vita di un gruppo di ragazzi, mescolando avventure formative, ironiche, drammatiche, in un’affascinate bulimia tematica ed espressiva.
Il secondo è Takashi Miike, iperattivo nella sua produzione media di 5 film all’anno. Nelle sale italiane s’è visto solo il pessimo The call, mentre decine sono le opere d’ogni genere ben più apprezzabili. Il Miike poetico è l’autore di Bird people of China, quello più sconvolgente il creatore di Ichi the killer. Quest’ultimo, che ha visto crescere attorno a sé una fama ammirata e timorosa, è un film che per la violenza espressa è decisamente fuori media, ma è un buon esempio di come un ottimo regista possa fare di un b-movie un’opera importante, estremizzando le possibilità del genere fino a trovare dei punti di contatto con la videoarte. Ichi dà la possibilità di confrontarsi con una concezione della morale e soprattutto del visibile (o meglio del “mostrabile”) che ci è culturalmente distante, e che quindi non può che portare ad un arricchimento.
Postato da Andrea Marino alle 17:24 0 interpretante/i
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