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29 settembre, 2006

E' il controllo della pubblicità il vero problema della tv

di Simone Arminio

La prima dichiarazione del neo-ministro delle telecomunicazioni, Paolo Gentiloni, sulla necessità di abrogare la legge Gasparri e riformare di sana pianta il mondo delle comunicazioni in Italia, riporta per l’ennesima volta la pubblica attenzione sull’anomalia delle nostre televisioni.
Che il sistema televisivo italiano sia un sistema drogato, un mercato sbilenco, immobile, dominato da pochi poteri forti, ciò è davvero risaputo, fino alla noia. Una certezza, che ormai pervade l’intera Penisola e tutti i suoi abitanti, dal più celebre massmediologo fino all’arcinota (ed forse arcistufa) casalinga di Voghera, che di televisione - si sa – ne capisce più di Mike Bongiorno ed Aldo Grasso messi insieme.
C’è bisogno di ribadirlo? Il duopolio Rai-Mediaset controlla sei canali nazionali su un totale di otto effettivi. Il resto, è presto detto: La7 con il suo 2-3% di share praticamente non fa testo, Mtv è un canale tematico, perciò dotato di uno statuto a parte. Un’altra concessione – Europa 7 – rimane tuttora inutilizzata.
In queste condizioni il mercato televisivo, stretto fra la gestione impura del servizio pubblico, vittima perenne delle logiche parlamentari, e l’aggressività del sistema privato (leggi come sostantivo singolare maschile: un solo privato), appare governato da due dominanti: la politica, mutevole ed egoista per antonomasia, e lo spirito commerciale che pervade in egual modo il pubblico ed il privato.
Identificati a dovere i mali che affliggono la tv, anche le cure auspicate sono state quindi declamate a lungo in questi anni, facendo morire di noia tanto Aldo Grasso quanto la povera casalinga lombarda.
C’è estremo bisogno, praticamente urge - lo ha ripetuto per ultimo qualche giorno fa in un’intervista a Repubblica il ministro Gentiloni - una riforma che contrasti gli accentramenti di potere e snellisca le percentuali della torta televisiva, da sempre in mano a due soli attori. Solo così si potrebbe incentivare l’ingresso nel mondo televisivo di nuove figure imprenditoriali.
Il mercato della televisione però, molto prima che dalle leggi, è sorretto e regolato dalla pubblicità, indispensabile linfa vitale per qualsiasi impresa mediatica.
È la pubblicità a pagare, ma pure in questo importantissimo settore il duopolio Rai-Mediaset domina, attirando a sé la quasi totalità delle risorse disponibili sul mercato. Solo rompendo il predominio dello spot si creerebbero allora le condizioni per una effettiva e reale liberalizzazione del mercato.
Il vero duopolio televisivo, questo è il punto, è quello pubblicitario. Ed è più forte e arroccato di quanto non sembri agli occhi degli stessi esperti (e delle casalinghe). Gli investitori sono sempre gli stessi: ditte che scelgono di destinare la maggior parte delle loro spese promozionali alla pubblicità in tv, ingolfando le trasmissioni di spot e creando nel mercato logiche centrifughe dalle quali è difficile sfuggire.
Perché a televisioni ed investitori pubblicitari, lo status quo attuale, a dire il vero, risulta essere la situazione migliore e più vantaggiosa possibile. Ciò fa ragionevolmente pensare che anche dopo una reale e fattiva riforma sarà difficile scardinarla.
Una consolidata e diffusa forma di co-programmazione (che, se fosse concordata e illegale, si chiamerebbe “cartello”), è dimostrata dall’esperienza quotidiana.
Nella fascia più importante e remunerativa di tutto il palinsesto, la prima serata, la finestra pubblicitaria delle 21:55 (per intenderci: quella che piomba addosso ai telespettatori sul più bello del film o del programma televisivo che stanno guardando) va in onda simultaneamente almeno in 5 canali su otto, per oltre l’80% dello share totale.
Alle 21:55 di domenica 14 maggio 2006, una serata qualunque, la pubblicità era presente contemporaneamente su Rai1, Rai3, Rete 4, Italia 1, Canale 5. In queste condizioni lo spettatore, benché armato di telecomando e pronto allo zapping difensivo, difficilmente può sfuggire. Sono i nostri cinque minuti di fuoco pubblicitario quotidiano e generalizzato ai quali è davvero impossibile sottrarsi.
Alle emittenti in fondo va bene: lo spettatore fa il suo giro, trova spot dappertutto, quindi, a parità di rompimento, torna sul canale che stava guardando. All’insieme degli investitori pubblicitari va anche meglio: sanno che quei cinque minuti, su qualunque dei sei canali essi investano, avranno un ottimo share assicurato, in ogni caso.
A queste condizioni, così vantaggiose per tutti, perché cambiare? La strategia è consolidata e remunerativa, e lo spettatore alla fine comprerà, certo che comprerà.
Ma se oltre a definire un tetto massimo di raccolta pubblicitaria per ogni rete, la nuova legge vietasse anche la simultaneità degli spot su tutte le reti nella stessa fascia oraria, allora lo share diventerebbe davvero più instabile, il pubblico avrebbe reali possibilità di cambiare canale, e le piccole reti potrebbero giocarsi sui contenuti la loro percentuale quotidiana di share.
Si aprirebbe per loro la possibilità di diventare più appetibili per gli investitori.
La televisione diventerebbe forse più plurale, si creerebbero nuove fette di mercato. In due parole, il duopolio comincerebbe realmente a vacillare. Fantascienza? Chi può dirlo. Ma di certo nessuno vorrebbe essere nei panni del ministro Gentiloni.

8 commenti:

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