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05 novembre, 2007

Incontro con Terry Gilliam. Tideland e quel che ne consegue

In occasione dell'uscita nelle sale, riproponiamo l'articolo di Giuseppe Marino, che uscì, ormai più di un anno fa, in occasione della mostra del cinema di Venezia.

Se è vero, come è vero, che la storia contemporanea è condensata nel grumo di vomito sui baffi di Benicio Del Toro, in Paura e Delirio a Las Vegas, allora l’opera dell’ex Monty Phyton Terry Gilliam ha un’importanza specifica più vicina a quella accordata da selezionate schiere di fans, che a quella negata da critici scettici.Martedì 27 giugno Gilliam ha presentato al cinema Arlecchino il suo ultimo film, Tideland, tratto da un romanzo di Mitch Cullin. La sua precedente opera, I Fratelli Grimm, pur dotata di tocchi autoriali riconoscibili ed apprezzabili, era certamente più pacificata, con inedite strizzatine d’occhio al mercato ed alla noia. Da qui la sorpresa d’aver assistito alla performance più anticonformista dell’autore, ad un rifiuto radicale delle canonizzate leggi hollywoodiane, a favore di un’espressione del fantastico nera, spesso marcia e disturbante, una strutturazione dell’intreccio che, paradossalmente, proprio nella ricostruzione di una favola, riesce a concedere poco o nulla alla realizzazione delle aspettative del pubblico. Il tutto in una messa in scena spoglia di effetti speciali, che lascia il compito del coinvolgimento e della sorpresa a scelte registiche puramente espressioniste.La storia è quella di una bambina, novella Alice, persa nella “terra delle maree” assieme al padre tossicodipendente, Jeff Bridges, che regala una sorta di Drugo lebowskiano andato a male.Durante la presentazione del suo film Gilliam mette l’accento proprio sulla volontà di costruire senza dare spazio ai tabù, tematici ed espressivi, che vincolano il cinema mainstream. Proposito rispettato nella sua trasposizione di un libro i cui temi centrali sono, a suo dire, “sex, drugs and necrophilia”. Mercoledì 28 all’Oratorio di San Filippo Neri s’è tenuto un incontro più approfondito col regista. All’inevitabile domanda su Brazil, ha risposto che gli si è “attaccato alle scarpe come una merda di cane”, pur ammettendo, poco dopo, come veda in Tideland l’opera più simile al suo lavoro più conosciuto e stimato. Eppure, parlando della sua concezione del lavoro di regista, pone come irrinunciabile la tendenza al cambiamento, fino a pensare, rivedendo i suoi vecchi film “il regista non lo conosco, non sono io”. Gilliam trova nella struttura dell’Oratorio una buona metafora di quella che dovrebbe essere l’opera registica: mattoni rossi da un lato, stucchi barocchi dall’altro, ed il soffitto incompleto con lo scheletro di legno a vista. Un accostamento ed un sovrapporsi, spesso caotico, di elementi eterogenei.Il mercoledì pomeriggio ha invece offerto la proiezione di Jabberwocky, prima opera del Gilliam solista, datata 1977, inedita in Italia. Il film è piuttosto sgangherato, richiama le atmosfere medievali polverose e demenziali del Sacro Graal, ed in sé è una visione prescindibile. È utile, però, a trovare un precedente per I Fratelli Grimm, che segna il passaggio dal noir fantascientifico di Brazil e de L’Esercito delle Dodici Scimmie, dal lisergismo esplicito di Paura e Delirio, al gotico delle ultime opere.E su questo campo il confronto con Tim Burton è automatico ed opportuno. Burton vanta una popolarità certamente superiore a quella di Gilliam, ed il suo nome è con una certa facilità accompagnato alla parola “genio”. In realtà quello di Burton sembra un nero tinto ad arte e piuttosto smaltato, dove personaggi bizzarri e più o meno mostruosi sono spesso al servizio di una storia classica e lineare, riducendosi il tutto ad una cifra estetica, ultimamente addirittura estetizzante e di maniera. Gilliam, al contrario, non ha paura di mostrare l’aspetto più profondamente contraddittorio e disturbante delle favole, quelle vere e cattive, compiendo l’operazione inversa: riveste di un’atmosfera falsamente lieve dei temi estremamente forti, ottenendo per contrasto un effetto spiazzante.Allo stesso modo i due registi hanno recentemente affrontato un tema comune, quello della narrazione orale, Burton in Big Fish e Gilliam in Tideland. Il primo, in quello che è uno dei suoi film migliori, ha costruito un percorso affascinante e colorato, rilanciando comunque l’idea della fascinazione del racconto che valorizza l’epos personale. Il secondo costringe la piccola narratrice a crearsi un mondo che trova anch’esso radici nel suo vissuto, ma che non ha niente di consolatorio, ed esalta, invece, i disagi e le vere e proprie dissociazioni della protagonista, costretta a cercare conforto in se stessa, uno degli elementi di un mondo fatto di persone danneggiate, disperate, isolate. Infine Gilliam ha detto dell’intenzione di riprendere quel Don Chisciotte, opera più complessa e costosa dell’indipendente Tideland, le cui disavventure sono narrate nel bel documentario Lost in La Mancha. Problemi di assicurazioni e produzioni sono vagliati in tribunale, mettendo in luce quell’inevitabile elemento industriale con cui chiunque voglia fare cinema deve fare i conti.

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